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Piatti racconta Sinner (e non solo): l’intervista di cui hanno parlato tutti
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In una recente intervista con il Corriere della Sera, Riccardo Piatti si è raccontato a tutto tondo, che ha riscosso ammirazione e interesse anche oltre il mondo degli appassionati di tennis. Il super coach italiano ha rivelato il sogno di uno slam al fianco di Jannik Sinner.

Le parole di Piatti

Oggi vogliamo riportarvi, a pochi giorni dal suo compleanno, l’intervista integrale realizzata dal Corriere della Sera a Riccardo Piatti, il super coach di Jannik Sinner.

Lavoro in proprio, non sono uno statalista. Ero un tecnico federale, seguivo un gruppo di ragazzi, tra i quali Renzo Furlan, Cristiano Caratti e Christian Brandi. I risultati non arrivavano, ma io credevo in loro.

La Federazione mi disse che dovevo lasciarli andare, non sarebbero mai diventati professionisti. Reagii con le parole di mio padre: ‘Se sei a capo di un progetto e quel progetto fallisce, non è colpa di chi ci lavora ma tua’.

Mi alzai e me ne andai, decisi di mettermi in proprio con i miei ragazzi trovando una casa tutta nostra a Moncalieri, diventando una specie di eretico. Hanno avuto quasi tutti una buona carriera e ne sono orgoglioso. I miei genitori vengono da una terra di lavoro, che rifugge dagli aiuti statali. Mi hanno sempre insegnato a contare su me stesso. A casa nostra statalismo era una brutta parola”.

L’allenatore dei campioni

Il racconto prosegue, con le avventure negli stage dell’Isola d’Elba e dei campioni che hanno collaborato con lui.

La prima estate con Jannik, aveva 13 anni, lo portai al mio stage all’Isola d’Elba. Bambino di montagna che sapeva a malapena nuotare, al primo tentativo di tuffo dagli scogli fece subito un salto mortale e tutti gli chiesero come ci era riuscito. Rispose che quando era in aria aveva pensato di fare due capriole consecutive, così almeno una l’avrebbe fatta per forza. Aveva già la testa del vero sportivo. Oggi ai ragazzi che vogliono imitare il dritto di Jannik va detto che devono guardare solo le mani e dove va la testa della racchetta, quella è l’unica cosa da fare.

Quando Maria Sharapova mi chiamò da Londra le dissi che sarebbe dovuta venire all’Elba, dove facevo il campo estivo. Arrivò in elicottero. Avevo prenotato l’unico campo disponibile a quell’ora, come in qualunque circolo. Era un terreno in cemento, spelacchiato, con qualche buco. Si guardò intorno e disse che se avesse giocato bene qui l’avrebbe fatto in qualunque posto del mondo. E cominciammo. Così ragionano i campioni”.

Il sogno slam e il non rimpianto Djokovic

L’intervista prosegue, con il sogno nel cassetto (condiviso con Sinner) e il non rimpianto per Djokovic.

La collaborazione finita con Djokovic dopo un anno e mezzo? Nessun rimpianto, consigliai alla famiglia di mandarlo dall’oculista e si scoprì che aveva due diottrie in meno, suo padre esigeva da me dedizione assoluta e non potevo sdoppiarmi, io sono fedele ai miei ragazzi. In più c’era il problema di avere con me Ivan Ljubicic, croato di origine bosniaca, Djokovic è serbo. In quel momento la guerra nei Balcani era finita da poco e certe cose in quei due Paesi pesano ancora.

Fu giusto lasciarsi andare, ma vincere uno Slam rimane un sogno che oggi condivido con Jannik. La ricerca del Sacro Graal continua”.

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