Senza peli sulla lingua, ma estremamente equilibrato nelle sue disamine, fatte sempre col massimo rispetto per i nomi chiamati in causa. Innamorato sostenitore dei colori azzurri e fiero baluardo di quei valori che ormai stanno scomparendo. È Paolo Cané, uno dei rappresentati più illustri del tennis nostrano, ex numero 26 al mondo e protagonista, assieme ad Omar Camporese, di tante battaglie in Coppa Davis.
Oggi, oltre ad esercitare la professione di commentatore televisivo, il classe ’65 bolognese insegna alla propria scuola tennis. “L’ho aperta dieci anni fa a Gorle, un paesino della bergamasca. È un ambiente tranquillo con 30-35 ragazzi, lavoriamo molto soft. L’obiettivo principale è portare avanti dei valori importanti: il divertimento e l’impegno, cercando ovviamente anche di giocare bene a tennis”, ci ha spiegato in una chiacchierata a tutto campo nella giornata di lunedì.
Poi ha aggiunto: “Io sono una persona molto veloce e diretta, ma reputo sia importante trasmettere la passione senza mettere pressione. Negli anni ho imparato a rispettare i ragazzi, anche perché quello che vedo in giro, nello sport in generale, non mi piace. Ci sono genitori troppo affamati di risultati mentre i figli sono ancora in giovane età. Bisogna rispettare la crescita mentale e fisica dei ragazzi. Poi se uno è buono viene fuori. Fortunatamente hanno dei punti di riferimento importanti, visto che l’Italia ha dei giocatori ottimi, che nei prossimi anni ci daranno grandi soddisfazioni. Anche a livello femminile, nonostante ultimamente le ragazze stiano ottenendo qualche risultato in meno rispetto agli uomini. Se stanno tutti bene fisicamente possono darci grandi soddisfazioni”.
A tu per tu con Paolo Cané
Paolo, che ne pensi della United Cup?
“Sai, qualsiasi cosa si organizza oggi a livello sportivo si ha sempre il pubblico diviso in un 50% di favorevoli e in un 50% di contrari. Per quanto mi riguarda, ho giocato la Hopman Cup, la formula era un po’ diversa ma era una bella competizione. Ti confrontavi con altri Paesi, con giocatori forti, al fine di trovare la condizione in vista dell’inizio della stagione. In definitiva, credo che la United Cup sia una bella manifestazione e che sia servita ai ragazzi: si sono trasferiti prima in Australia, si sono ambientati con il fuso orario, con il clima, con le palle. Hanno testato la loro condizione fisica. Mi ha sorpreso Berrettini, dopo tanto tempo ai box non mi aspettavo giocasse così bene. Mi è piaciuto contro Hurkacz, Ruud e Tsitsipas, ma anche contro Fritz”.
Tra Brisbane e Sydney abbiamo visto ritmi elevatissimi e tanta passione…
“Quando vai a giocare una partita, che sia sotto casa o in un Grande Slam, non vuoi mai perdere. Mi è piaciuto lo spirito di squadra creato da Santopadre”.
Trevisan e Bronzetti si sono rivelate decisive nell’approdo dell’Italia in finale. È una bella rivincita per il tennis femminile azzurro.
“Se perdono sono le più scarse del mondo, se vincono sono le più forti del mondo. Ormai ci abbiamo fatto il callo… Da quando sono nati i social sono tutti professori, tutti tecnici. La verità è che i ragazzi si impegnano e fanno grandissimi sacrifici, non gli piace mai di perdere. Nell’arco dell’anno ci sono momenti positivi e momenti negativi. Chi sfrutta i momenti positivi fa semifinale al Roland Garros, come Trevisan, che poi ha avuto un passaggio a vuoto inanellando svariate sconfitte. Ma il passaggio a vuoto mica va a cancellare quanto di buono fatto!? No. Farà venti primi turni e una semifinale Slam, pazienza. Chi ha giocato può parlare, a mio parere. Se poi diamo la voce a tutti non va più bene niente. Una cosa che mi ha sempre dato fastidio dell’Italia è che ci son troppi professori. Troppi fenomeni da tastiera che parlano senza aver mai preso in mano una racchetta”.
Quanto pesa questo fattore psicologicamente?
“Credo che i giocatori non diano peso a queste cose. Loro cercano di arrivare sempre pronti, soprattutto agli Slam, e cercano – io gli auguro sempre di riuscirci – di fare una buona programmazione. Il tennis di oggi ti porta a giocare tutte le settimane, per il montepremi, per il fatto che ci siano tanti tornei. Bisogna avere la testa di riuscire a programmare l’annata nel modo giusto. Non bisogna avere troppa fretta di giocare, ogni giocatore deve capire qual è il proprio limite, capire quanto può tirare, nonché rispettare i tempi di recupero e di preparazione. È la base del tennis moderno”.
“Santopadre fondamentale per l’Italia e per Berrettini. Su Sinner…”
Dicevamo prima di Santopadre…
“È stato fondamentale per la tranquillità che ha trasmetto alla squadra. E soprattutto per la serietà e la conoscenza che ha di questo sport. Oltre ad essere stato un ottimo giocatore, Vincenzo riesce a gestire Berrettini molto bene da diversi anni. Gli ha creato un ambiente tranquillo intorno, rispettando anche le scelte del giocatore. Nel caso della United Cup, è stato bello vedere l’unità del gruppo azzurro. Ogni punto realizzato, chi era in campo si girava verso l’angolo nostrano e si sentiva parte di una bambagia tricolore che lo spingeva a lottare per la propria nazione. Mi piace, si è creato un bel feeling tra gli italiani. E ciò aiuta il movimento”.
C’è una partita che ti ha particolarmente entusiasmato nelle vesti di commentatore televisivo?
“In realtà mi entusiasmano tutte le partite che commento. Però dico sempre che un bel film lo fanno gli attori, così come un bell’incontro lo fanno i giocatori. Capito cosa voglio dire? Adesso partirò domenica con gli Australian Open, commentando le partite per Eurosport. Sicuramente ci saranno alcuni primi turni molto interessanti ed altri sostanzialmente noiosi. Il più delle volte le partite più belle vengono giocate dai tennisti meno conosciuti. Perché c’è sempre parecchio equilibrio, son tutti preparati e la posta in palio è molto alta. Ovviamente, quando giocano gli italiani devo sempre cercare di mantenere una certa linea, ma il tifo è per loro”.
Quanto sei preoccupato dalle condizioni di Sinner?
“Non lo so, è sempre un punto interrogativo. Non mi piace leggere che i suoi guai fisici sarebbero il frutto del divorzio con Piatti. Jannik ha la testa sulle spalle e non è l’ultimo arrivato. Si è creato un bel team. Per i ritmi che ci sono al giorno d’oggi, e per gli strappi che si danno nel giocare, capita che ti puoi far male. Questo non dipende dalla preparazione, perché oggigiorno non esiste un professionista che non cura il fisico. Semplicemente ci sono giocatori predisposti a farsi male più spesso. Dicevo prima che è fondamentale programmare bene. Ma pur riuscendoci possono capitare alcune cose che ti possono bloccare”.
Tra l’altro è successo anche ad Alcaraz, uno dei più osannati per le sue qualità fisiche…
“Alcaraz deve fare un attimo mente locale e pensare «Sono diventato numero uno, sono un campione, ma…». Io credo che gli sarebbe interessato di più giocare l’Australian Open da numero 10-15 del mondo. È giovane, avrà il tempo di rifarsi, ma per il numero uno saltare già il primo Slam stagionale è una cosa molto grave”.
“Ho un debole per Shapovalov. Nadal? Dipende da inizio anno…”
Qual è oggi il giocatore che più ricorda Paolo Cané?
“Da anni ho un debole per Denis Shapovalov. È la massima espressione del tennis, ma ancora deve capire come si gioca. Va troppo fuori giri a livello tattico. Deve fare un po’ meno rispetto a quello che sa fare, non di più. Deve rallentare (ride, ndr), perché fa sempre tutto troppo bene, porta il concetto all’estremo: è alla costante ricerca della difficoltà, anche nelle palle che possono essere giocate in modo facile. Comunque verrà fuori. Un altro bravo è Sebastian Korda. Ha un tennis facile ed esplosivo, dritto, rovescio, servizio. Verrà fuori anche lui, ma non lo dico perché ha fatto finale ad Adelaide. Lo dico perché mi piacciono quelli che giocano facile, fanno movimenti morbidi e non strappano sempre di forza. Purtroppo, oggi, ce ne sono sempre più pochi. Si pensa meno alla tattica e alle traiettorie e molto di più alla potenza. Il campo da tennis va usato in maniera diversa, non si gioca soltanto dalla metà campo all’indietro ma anche in avanti. Infine, mi ha sorpreso molto Casper Ruud, un giocatore che sa fare tutto bene. Gli si da poco credito perché non lascia trasparire troppe emozioni, è sempre lì nel suo mondo. Ma con grande sacrificio l’anno scorso è riuscito a raggiungere due finali Slam e la finale al Master. E poi vedi cosa ha fatto pochi giorni fa? Ha dichiarato che dopo l’Australian Open si fermerà per fare la preparazione. Ha capito che tirando molto la corda nel 2022 adesso è costretto a fermarsi e rimettersi in sesto per poi andare a raccogliere i frutti sulla sua superficie più adatta, la terra battuta, anche se poi anche altrove gioca benissimo. È più che intelligente, sfrutta al 100% le sue potenzialità”.
Dall’allievo al Maestro. Nadal, quale futuro?
“È un discorso molto difficile. È normale che abbia perso un po’ di smalto dopo tutto quello che è riuscito a fare nel corso degli anni. Colpisce sempre bene, mentalmente è sempre fortissimo, ma con il fisico non si può far niente. Dipende da come arriverà al Roland Garros. Tutto dipende da questi primi cinque mesi dell’anno. Sulla base di quello che succede deciderà se continuare o meno”.
Connors, Edberg, Wilander, Ivanisevic e Cash. Hanno tutti una cosa in comune: li hai sconfitti. Qual è stata la vittoria più bella?
“Quella che ricordo con maggior piacere è la vittoria con Wilander a Cagliari, in Coppa Davis”.
Tennis d’altri tempi…
“Era un tennis diverso, più bello da vedere. Però, in ogni caso, bisogna adattarsi all’evoluzione, stare al passo con la fisicità, accettare i cambiamenti determinati dai nuovi materiali. Oggi il tennis è meno bello, ma sempre molto affascinante. Si vedono meno colpi di classe e talento, ma giocare alle velocità attuali è parecchio difficile”.
L’appello: “Facciamo il tifo per gli azzurri!”
Una considerazione finale sul futuro del tennis italiano?
“Facciamo un grande in bocca al lupo agli azzurri. Alternandosi ci daranno grandi soddisfazioni. Siamo fortunati ad essere italiani e ad averli, facciamo il tifo per loro e non critichiamoli troppo se perdono o hanno qualche infortunio. Sono ragazzi seri e dei grandissimi professionisti”.
A cura di Giuseppe Canetti.
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